Situazioni conflittuali o particolari – Discriminazioni di lavoro – Discriminazioni in ragione del sesso

Principi generali

L’art. 8 Cost. federale sancisce il principio di uguaglianza degli esseri umani davanti alla legge, vietando espressamente ogni forma di discriminazione in ragione del sesso,
dell’origine, della razza, dell’età, della lingua, dello stato sociale, del suo modo di vivere, delle convinzioni religiose, filosofiche o politiche o per via di carenze fisiche, mentali o psichiche.

Ai fini professionali, in questa disposizione rientra altresì il fatto che uomini e donne devono avere uguale accesso al mondo del lavoro e a pari salario a parità di lavoro.

Il principio costituzionale di uguaglianza, è riaffermato e concretizzato – nel mondo
professionale – dalla legge sulla parità dei sessi (Legge sulla parità dei sessi, LPar), che non affronta ogni genere di discriminazione, ma solo quella relativa al sesso. Infatti, la legge non consente di attaccare un datore di lavoro per il fatto di assumere frontalieri invece di residenti sul territorio, poiché una simile forma di discriminazione non è riconducibile al sesso, ma al luogo di domicilio.

La legge non contiene una definizione del concetto di «discriminazione»; in tale contesto, il legislatore ha voluto lasciare ampia discrezionalità al giudice.

Il divieto di discriminare ricorre in tutte le tappe del rapporto professionale: dall’offerta di
lavoro, al momento dell’assunzione, in corso di contratto – ad esempio, nell’assegnazione
delle funzioni, nella gestione delle condizioni di lavoro, remunerazione, formazione e
formazione continua, promozione – come pure a fine contratto, in particolare in fase di
rescissione del rapporto (art. 3 cpv. 2 LPar).

Il divieto di discriminare ricorre in tutte le tappe del rapporto professionale: dall’offerta di lavoro, al momento dell’assunzione, in corso di contratto – ad esempio, nell’assegnazione delle funzioni, nella gestione delle condizioni di lavoro, remunerazione, formazione e formazione continua, promozione – come pure a fine contratto, in particolare in fase di rescissione del rapporto (art. 3 cpv. 2 LPar).

Esempi:

Divieto esplicito di discriminare in ragione della gravidanza

Tra le varie potenziali forme di discriminazioni legate al sesso, la legge menziona
espressamente la gravidanza, al pari dello stato civile e della situazione familiare (art. 3 cpv. 1 LPar).

In altri termini, la lavoratrice non può essere trattata peggio (dal datore di lavoro) per il solo fatto di essere incinta, in allattamento o perché ha figli in tenera età:

Esempio: offrire un posto meno interessante e meno pagato alla lavoratrice che
riprende il lavoro dopo il congedo di maternità.

Domande in fase di assunzione: domande illecite

Dal divieto di discriminazione in fase di assunzione, si desume il non obbligo della
lavoratrice di comunicare spontaneamente la gravidanza. Qualsiasi domanda in merito, posta dal datore di lavoro, in fase di assunzione, del tipo: «lei è incinta?», «ha intenzione di avere figli a breve?» sono illecite, quando la gravidanza non è di rilevante ostacolo alla prestazione di lavoro.

Simili domande peraltro costituiscono ingerenza nella sfera privata della lavoratrice e
violano il rispetto della personalità (JAR 1994, 128).

Per contro, si ritiene che la lavoratrice non possa vantare tale «diritto alla menzogna»
nell’ipotesi in cui la gravidanza impedisca l’esecuzione dell’attività lavorativa (danzatrice, modella, lavori pericolosi per la gravidanza – quali: esposizione alle radiazioni, manipolazione di prodotti tossici – o rispetto a lavori fisicamente impegnativi, quali la cameriera, ad esempio – JAR 1984 p. 95). In tal caso, il datore di lavoro ha il diritto di porre domande relative alla eventuale gravidanza – attuale o imminente – e la lavoratrice è tenuta a rispondere in modo veritiero.

Diritto alla menzogna

Esiste quindi il cosiddetto «diritto alla menzogna». Infatti, le regole fondamentali sul
principio della buona fede in materia pre-contrattuale devono essere interpretate
restrittivamente, essendo esclusivamente connesse agli elementi contrattuali, oggetto di trattativa. Quindi, la lavoratrice non è affatto tenuta a dire la verità quando deve difendersi da un’ingerenza nella propria sfera privata. Il datore di lavoro, in ogni caso, non potrà appellarsi alla eventuale menzogna per chiedere l’annullamento del contratto, adducendo vizio del consenso (artt. 23 e ss. CO), né tantomeno per motivare il licenziamento in tronco.

Discriminazione diretta e indiretta

Le discriminazioni dirette sono menzionate espressamente dalla legge; si tratta di differenze di trattamento fondate sul criterio del sesso o su altri criteri aventi quale effetto quello di escludere persone di uno dei due sessi, ad esempio, la gravidanza (art. 3 cpv. 1 LPar).

Anche le discriminazioni indirette sono menzionate nella legge (art. 3 cpv. 1 LPar); si tratta di criteri che formalmente si applicano a entrambi i sessi, ma di fatto penalizzano – quantitativamente – le persone di un sesso più negativamente rispetto a quelle dell’altro sesso.

Esempio: è discriminatorio offrire una formazione alle sole persone a tempo pieno,
poiché le lavoratrici a tempo parziale – vale a dire la maggioranza delle donne – non
ne potrebbero beneficiare.

Attenzione non ogni trattamento differenziato basato sul sesso è di per sé discriminatorio. Infatti, potrebbe essere giustificato da qualifiche o responsabilità differenti; aspetto, però, questo che dovrà essere provato dal datore di lavoro, in caso di controversia. Per la medesima ragione, le vigenti disposizioni a tutela della donna non sono discriminatorie (nei confronti dell’uomo) perché oggettivamente giustificate dal bisogno di tutelarne la salute, connessa alla maternità (v. n attesa del Bebè – tutela della salute sul luogo di lavoro).

Madri che tornano al lavoro e quelle che cessano l’attività

Sovente, determinate disposizioni (convenzioni o contratti collettivi, contratti individuali di lavoro) prevedono una riduzione della durata del pagamento del salario o delle indennità giornaliere, che l’impresa è tenuta a versare alle madri che cessano o riducono la loro attività. Si tratta qui di stabilire se il congedo di maternità non si applica o la riduzione che incide sulle prestazioni del datore di lavoro siano più elevate di quelle garantite dall’assicurazione maternità federale. Si tenga presente, infatti, che per ciò che concerne la indennità di maternità, il fatto per la donna di voler proseguire o meno l’attività dopo il congedo, è del tutto irrilevante.

Per diverse ragioni, simili disposizioni contrattuali costituiscono, quindi, una
discriminazione nei confronti delle madri che riducono o cessano l’attività lucrativa alla nascita del figlio. E, in quanto discriminatorie, non sono consentite ai sensi della legge sulla parità dei sessi che vieta ogni forma discriminatoria basata sulla gravidanza, il sesso o la situazione familiare (art. 3 LPar). Questa legge implementa il principio di uguaglianza – tra uomo e donna – di cui alla Costituzione federale (art. 8 cpv. 3). Pertanto, ogni disposizione discriminatoria – sia essa inserita nel contratto individuale di lavoro, in un contratto tipo o nel CCL – è inderogabilmente nulla.

Assicurazione privata – possibile discriminazione

Le madri che intendono cessare o ridurre l’attività, a volte si vedono imporre una riduzione della durata del pagamento del salario o una riduzione delle indennità giornaliere versate dall’assicuratore privato. E’ fatto salvo, ovviamente, il diritto alle indennità previste dall’assicurazione maternità.

Per diverse ragioni, questo modo di fare costituisce indubbiamente una discriminazione rispetto alle madri che riducono o cessano l’attività lucrativa al momento del parto. I seguenti principi possono essere disattesi se la clausola è inserita in una convenzione collettiva di diritto pubblico:

Discriminazione in caso di disdetta del rapporto di lavoro

La legge sulla parità dei sessi tutela contro: